Tab Article
Molto si insiste ancora sulla validità della definizione del fascismo come breve e transeunte «parentesi» della vita politica italiana, priva di ogni nesso di continuità con la storia dell'Italia liberale, formulata a più riprese da Benedetto Croce dopo il 25 luglio 1943. L'assimilazione del Ventennio nero all'invasione di barbari esterni, estranei al tessuto civile creato dal Risorgimento, si scontrava, però, con la cruda evidenza che la dittatura mussoliniana fu immediatamente accolta da un consenso vasto e pressoché incontrastato al quale solo il netto profilarsi della catastrofe militare pose fine. Il travaso di consensi dal sistema parlamentare al regime fu soprattutto forte da parte degli intellettuali liberali e dei loro gruppi politici di riferimento, stremati dalle fiacchezze e dai compromessi del sistema giolittiano e dalla deriva politica e sociale del primo dopoguerra. Anche Croce, se non fu davvero «uno schietto fascista senza camicia nera», come gli rinfacciò Giovanni Gentile, pure rimase vittima di quell'illusione, fino al gennaio 1925. Di fondamentale importanza furono tuttavia gli anni del fascismo per la biografia politica del filosofo. Soltanto dopo il suo passaggio a inflessibile oppositore del regime, e in particolare nel decennio 1928-1938, il pensiero di Croce, a lungo oscillante tra l'ideologia socialista, le pulsioni antisistema di Georges Sorel, la lezione dei teorici tedeschi dello «Stato-Potenza» e la piena accettazione del liberalismo della Destra storica, si chiarì nei suoi tratti distintivi per dare luogo a un «nuovo liberalismo» in grado di fronteggiare la sfida dei totalitarismi neri e rossi del Novecento.